Storia di uno spazio comunale in una città che non sa che farne
di Stefania Giroletti
DU30 è il nome di un futuro spazio pubblico in Arcella. È stampato sui grandi pannelli che circondano il cantiere in piazza Azzurri d’Italia, zona San Carlo, dove un tempo sorgeva la palazzina dell’ex-Coni, il cui abbattimento è da poco terminato.
«Che nome è?», chiedono in molti. Effettivamente ai più il termine non dice nulla e solo i curiosi vanno a googlarlo per scoprire che è il nome di una sedia di design dal costo che, nella nuova linea di produzione, supera i mille euro a unità. L’ideatore è Gastone Rinaldi, designer e calciatore italiano, nato a Padova e morto nel 2006, figlio del proprietario dell’azienda Rima (dalle iniziali Rinaldi Mario), industria di arredo moderno che si fece notare nel panorama italiano per la sua produzione elegante, innovativa e di qualità. DU 30 fu prodotta dalla Rima e vinse il premio Compasso d’Oro nel 1954.
La Rima nasce come bottega artigiana in via Guido Reni per poi crescere e affermarsi negli anni del dopoguerra. Gastone è figlio dell’Arcella, in qualche modo; è un’eccellenza arcellana, fiore all’occhiello della borghesia locale. È certamente per questo motivo che l’assessore alla cultura del comune di Padova, Andrea Colasio, ha deciso di battezzare con questo nome il nuovo spazio.

I nomi sono importanti e non sono mai semplicemente nomi: riflettono un’idea, un progetto. Quale idea e quale progetto di città rivela il nome DU30, così poco inclusivo in quanto incomprensibile ai più? Cosa ha a che fare con il quartiere popolare e multietnico in cui sorge?
La destinazione sociale dello spazio è quella di centro culturale; le dichiarazioni di assessore e vicesindaco non declinano in maniera specifica il concetto, che rimane piuttosto vago. Sarà uno spazio espositivo. E una mostra di design. Sarà la sala della Consulta di quartiere. Sarà una biblioteca. Sarà una ludoteca, una mediateca. Ci saranno otto residenze per artisti. Nella stessa sezione ci sarà spazio per ben tre (piccoli) alloggi popolari per l’emergenza abitativa (ecco il social housing che torna, ma mescolato alla più classica bohème, gli artisti fra i poveri, o meglio: i poveri fra gli artisti!).
Le dichiarazioni ufficiali, insomma, prefigurano uno spazio polimorfo che ambisce ad essere tutto (e niente). L’edificio intanto verrà costruito, poi si vedrà. Nella confusione di intenti, l’unico punto saldo è che ci sarà un bar e che sarà affidato alla stessa ditta che gestisce il caffè Pedrocchi. Ditta che ha partecipato economicamente al progetto di recupero come finanziatore privato e che sta, contemporaneamente, mettendo le mani anche sull’ex-Configliachi per farci una scuola di pasticceria.
Colasio afferma fiero che l’Arcella sarà il nuovo «polo culturale» della città, il «quartiere più dinamico e giovane», che «non sarà più periferia, ma centro». Infatti, l’intento sembra proprio quello di trasformare l’Arcella nel secondo centro di Padova, attrazione per un turismo diverso, diversificato: più Kreuzberg e meno Medioevo.
Qualsiasi abitante della zona conosce bene la barriera che separa i due luoghi della città: non si tratta del Cavalcavia Borgomagno, ma di una barriera economica e culturale. Il centro è a maggioranza bianco e sempre meno vivibile, preda di un principio di speculazione che porta i proprietari ad affittare il maggior numero di stanze al prezzo più alto possibile, rivolgendosi quindi a turisti e studenti. Il carattere multietnico dell’Arcella si è invece rinforzato negli ultimi anni, anche grazie al tessuto di case popolari che regolano il caro-affitti nel mercato privato. La situazione del quartiere è comunque precaria e l’avanzamento di processi di gentrificazione spinge le classi popolari sempre più ai margini del luogo che ha fatto della multiculturalità la sua bandiera.
Piuttosto che chiedersi quali siano i bisogni di un posto come l’Arcella, in cui finalmente apre uno spazio pubblico che non sia di proprietà della chiesa (che di spazi ne ha parecchi), Colasio e Micalizzi perseguono una loro idea estetizzante, che riflette una concezione di cultura astratta, medio-borghese e, in fin dei conti, inutile o utile ai soliti pochi. Una cattedrale nel deserto.
Un’idea differente è stata portata avanti da Coalizione Civica per Padova (da qui in avanti CC), che ha mobilitato parte della cittadinanza attorno al concetto di percorso partecipato per la definizione della destinazione d’uso dello spazio. Ciò che CC rivendica è un percorso di progettazione gestito da professionisti terzi, che sappia coinvolgere le realtà che dimostrano interesse, facendone emergere i bisogni e facendo infine una sintesi da presentare all’ amministrazione comunale per indire il bando di progettazione.
L’idea di un percorso partecipato era stata fatta inserire già in un bando del 2022 per volontà dell’allora assessora al sociale con delega alla casa Marta Nalin di CC, ed aveva ottenuto un finanziamento (piuttosto smilzo) di 7 mila euro. Con gli aumenti dei costi e per un difetto di volontà da parte dell’amministrazione, però, il percorso si è ridotto a un paio di incontri nelle scuole medie e a una presentazione a San Carlo del progetto già confezionato. Di conseguenza CC si è messa a capo di una rete di cittadini e realtà interessate al destino dello spazio e ha iniziato nei fatti quel percorso partecipato negato dal Comune, organizzando prima di tutto un incontro con Antonella Agnoli, consulente bibliotecaria, fondatrice della biblioteca di Spinea e autrice di libri che ragionano attorno allo spazio della biblioteca come spazio di democrazia; in seguito, è stato lanciato un flash mob in piazza Azzurri d’Italia, lo scorso aprile. Le iniziative hanno avuto come esito la stesura di un documento condiviso intitolato “Lo spazio giusto. Una città in biblioteca”, in cui CC, dopo aver contattato numerosi altri soggetti attivi sul territorio, si fa portavoce di una pletora di richieste attorno allo spazio DU30, in particolare in merito alla realizzazione di una biblioteca specifica per ragazzi e ragazze all’interno dell’edificio.
Colasio ha rassicurato gli interlocutori e confuso e intorbidato ulteriormente le acque dell’opinione pubblica: certamente, la biblioteca si farà, ma anche tutto il resto. Evidentemente la questione non è risolta e dalle macerie dell’ex-Coni si proietta una chimera ancora informe con un nome improbabile.

La storia inconclusa della palazzina dell’ex-Coni è interessante perché è un compendio delle posizioni che si possono avere attorno all’uso di uno spazio pubblico. Da una parte la visione di Colasio si dimostra legata all’interesse economico e riflette una visione di città ad uso e consumo del turismo (museo del design, spazi espositivi e residenze per artisti, ristorante di lusso). Una città di pochi, che riqualifica i suoi quartieri periferici per presentarsi ripulita ai riti del consumo, del tutto in linea con i processi di gentrificazione che spostano le masse popolari fuori dai confini della città.
Dall’altra la posizione di CC ha il merito di rimettere al centro l’idea della partecipazione, ma gessificandola in un percorso di co-progettazione che non può che venire affidato a enti del terzo settore, esperti (veri o presunti) che siano in grado di armonizzare le richieste per garantire un uso dello spazio conforme ai desideri di tutte e tutti senza escludere nessuno. Chi parteciperà verosimilmente a questi percorsi? Sarà veramente la popolazione arcellana a farlo, in particolare nella sua componente migrante o popolare? La co-progettazione, meccanismo onnipresente negli ultimi anni, funziona come forma di mediazione fra gli interessi organizzati (segnatamente, quando si rivolge al sociale, dei cittadini attivi ma soprattutto degli attori del terzo settore); non è detto che questo sia l’unico modo, anche perché non è detto che i famosi bisogni della popolazione siano chiari.
Quello che serve affinché uno spazio pubblico sia veramente tale è un’idea. Serve una politica, una concezione specifica della città che guidi le scelte di un’amministrazione in maniera chiara e a servizio dei cittadini, anche di quelle e quelli che non hanno voce e che non l’avranno mai, nemmeno in utopiche progettazioni condivise. Serve una politica che non veda nel tritacarne della speculazione e del turismo l’unica possibilità. Anni di rifiuto della politica (a sinistra) hanno abbandonato le città in mano agli appetiti degli speculatori e le stesse utopie che vi si contrappongono sono troppo fragili per contrastarne il processo.
Se alla base dell’amministrazione ci fosse una visione politica chiara, allora, uno spazio per tutte e tutti non avrebbe un nome che non dice nulla quasi a nessuno.
